ISTAT: Non in nostro nome
Non in nostro nome
I riflettori sono puntati sull’Istat: articoli su tutti i principali quotidiani nazionali, social network scatenati, prese di posizione bipartisan da ogni punto dello spettro politico-sindacal-intellettuale, petizioni addirittura. Un’ improvvisa esplosione di interesse per le sorti della statistica pubblica in Italia? Un dibattito generale, a partire dalla riorganizzazione dell’ente, sul senso e sulle prospettive della “misurazione” della realtà del nostro paese in cui siamo ogni giorno impegnati? Niente di tutto questo, a vederci bene.
Ci saremmo volentieri risparmiati di intervenire in un “dibattito” che ha assunto dimensione e toni francamente grotteschi, se non fosse per la spiacevole sensazione che gli unici assenti, gli unici invisibili, sono proprio i lavoratori dell’Istat. Ci prendiamo perciò la briga di fornire alcuni elementi utili alla riflessione.
I fatti. Una storica dirigente dell’Istat, la dott.ssa Linda Laura Sabbadini, a seguito dell’ennesima ristrutturazione dell’Istat, perde la poltrona che deteneva da quasi 20 anni: prima direttrice, promossa a capo-dipartimento nella grande festa dirigenziale organizzata da Enrico Giovannini, protagonista appena 5 anni fa di un altro riordino che moltiplicava poltrone e retribuzioni per il management Istat.
Apriti cielo. L’intensa e interessata attività di stampa già avviata nelle scorse settimane e tesa a evitare lo spiacevole evento, si è trasformata in una ben organizzata esplosione di indignazione, che testimonia se non dello spessore scientifico (su cui tutti sono comunque pronti a giurare) quantomeno dello spessore dell’agendina telefonica della dirigente in questione, costruita in anni di intensa attività di relazioni di potere. Pioniera delle statistiche di genere, impegnata a rendere visibili gli invisibili, esempio positivo di potere femminile. Vittima perciò di normalizzazione maschilista, o addirittura del “nuovismo renziano” come leggiamo sul “Manifesto” e su siti di movimento, in spregio del ridicolo.
Pioniera delle statistiche di genere come anche delle esternalizzazioni che hanno inaugurato lo smantellamento delle indagini sociali (nonché dei diritti e delle condizioni di vita di tanti lavoratori impegnati nella loro realizzazione) su cui oggi si versano interessate lacrime di coccodrillo.
Da direttore ha condiviso, accompagnato e realizzato l’esternalizzazione della rete di rilevazione dell’indagine sulle Forze di Lavoro (la principale e più longeva indagine campionaria condotta dall’Istat) decisa da Biggeri e ultimata da Giovannini, quest’ultimo premiato per questo ed altri disastri realizzati in Istat con la poltrona di Ministro del Lavoro (dopo essere stato uno dei saggi di Napolitano).
sbilanciamoci.info/le-forze-di-lavoro-restano-senza-forze-2593/
A questa prima pionieristica esternalizzazione sono seguite le esternalizzazioni di tutte le altre indagini principali demo-sociali, sui consumi delle famiglie e sui redditi e condizioni di vita delle famiglie, in omaggio al principio liberista “markets do it better”. Le conseguenze sulla qualità delle indagini sono sotto agli occhi di chiunque abbia cognizione di causa, l’efficienza del mercato nel fornire questi servizi anche. Le impellenti necessità di risparmio imposte dalla crisi in questi casi sono state ipocritamente aggirate. Siamo disposti ad un confronto pubblico sul tema, ovunque e con chiunque.
Sulle caratteristiche manageriali e sullo stile di direzione pure ci sarebbe molto da dire. Una combinazione di informalità, familismo e autoritarismo, con la costruzione di una rete personale di yes woman e yes man in cui alla richiesta di “fedeltà” e disponibilità incondizionata si collegavano la distribuzione di ruoli, carriere e visibilità. Una versione rosa del potere, un modello da difendere? Al di là delle retoriche o ipocrite esaltazioni della differenza di genere, nessuna differenza nell’essenza profonda dei rapporti di potere.
Si chieda alle decine di lavoratori del dipartimento diretto da LLS che nell’aprile scorso firmarono un documento di sdegno e condanna per la gestione autoritaria delle giornate di lotta dei tecnici e degli amministrativi (i cui salari sono bloccati da anni, a differenza delle retribuzioni dirigenziali); quelle giornate si conclusero con la “precettazione” di alcuni di loro ed il trasferimento “consigliato” nelle stanze presidenziali per concludere il lavoro che si intendeva ritardare. O si chieda a qualche lavoratrice precaria (queste sì invisibili), che l’ha incrociata in tribunale cercando il riconoscimento di un lavoro ingiustamente precarizzato (da co.co.co.) all’interno del suo dipartimento. Diciamo quantomeno che l’immagine pubblica che si cerca di veicolare a colpi di tweet non corrisponde alla nostra esperienza diretta e quotidiana di lavoratori Istat.
(In coda, tra le notizie correlate, il nostro comunicato del 28/04/2015 "Dirigenza coatta").
L’Istat, e la statistica pubblica, sono in grande difficoltà. Quasi un quinto dei dipendenti sono lavoratori precari, impegnati in una dura battaglia per la stabilizzazione e i cui contratti scadranno tra poco più di un anno. Da un anno va avanti la mobilitazione dei tecnici e degli amministrativi, che hanno perso il 10% del proprio potere d’acquisto in 6 anni di blocco di salari e progressioni. La tenuta della produzione statistica è oggi garantita solo dal lavoro di ricercatori, tecnologi, tecnici e amministrativi, a volte in condizione di semi-autogestione. L’amministrazione Alleva, in perfetta continuità con quelle che l’hanno preceduta, non ha risposte. La ristrutturazione dell’Istituto assomiglia molto ad una vera e propria aziendalizzazione, con l’introduzione dei contratti di servizio a regolare i rapporti tra settori “di produzione” e strutture trasversali “di servizio”, informatiche, metodologiche e organizzative. Senza tacere che la distribuzione delle nuove poltrone segue pedissequamente la stessa logica da cordata di potere, esattamente come le precedenti.
Difendere la statistica pubblica vuol dire, banalmente, difendere il carattere pubblico della statistica. Vuol dire investire risorse per difendere e ampliare il patrimonio storico di capacità e conoscenze dell’Istituto, re-internalizzando le parti del processo di produzione fatte uscire dal perimetro dell’Istituto. Vuol dire investire nel capitale sociale della comunità lavorativa dell’Istat. Vuol dire chiudere una volta per tutte la lunghissima stagione della precarietà, stabilizzando i precari e rigettando nuove e subdole forme di precarizzazione come gli assegni e le borse di ricerca. Vuol dire eliminare tutte le rendite di posizione e di privilegio. Vuol dire riconoscere e valorizzare economicamente il lavoro della grande maggioranza di chi fa andare avanti l’Istat tutti i giorni, e non gli interessi di un pugno di dirigenti che il nostro lavoro stanno continuamente depauperando nella lotta per sopravanzare la cordata avversaria.
L’Istat non può continuare ad essere un palcoscenico per i narcisismi e le ambizioni personali di qualcuno per potente che sia, né un terreno di scontro o di conquista per lobby politiche, sindacali o giornalistiche.
Le vostre guerre di potere non le fate in nostro nome.
P.S. In ultimo, un breve inciso per il ruolo che associazioni o singoli esponenti della “sinistra”, o sedicente tale, hanno avuto nella mobilitazione per questa dirigente. Esclusi i casi in cui ci sia interesse o vincolo personale, il clamoroso abbaglio preso da questi improvvisati paladini della statistica sociale fa capire di quale malattia è morta o sta morendo questa sinistra, che si compiace di patine tenui e clichès inconsistenti senza la minima capacità di guardare dentro alla realtà. Come attivisti e militanti sindacali impegnati nella battaglie (vere e senza molti tweet) sul nostro posto di lavoro e non solo, ci pare il caso di segnalarlo.
Il collettivo di USB-PI Istat